Thailandia, Cambogia e Vietnam – Il bagaglio perduto (2)

ayuttaja

Finalmente, e a distanza di due anni, ed altri numerosi viaggi, son riuscito ad iniziare un resoconto di questo grandissimo viaggio, intensissimo,  fatto di volti sconosciuti, di caldo torrido, di strade affollate, di mare, e di odori che ti cambiano la vita.

Dopo India e Nepal, il primo forte e durissimo viaggio in Asia, ci siamo nuovamente ritrovati davanti ad una birra ghiacciata io e Filippo, pronti a pianificare un altro epocale percorso, questa volta attraverso la Thailandia, Cambogia e Vietnam. La destinazione scelta, come  per testare la nostra resistenza a quei luoghi cosi lontani dalla nostra cultura e dalla nostra vita di tutti i giorni.

Ho bisogno di scriverlo (finalmente), prima che i ricordi sbiadiscano troppo, e prima che quelle foto scattate rimangano cartoline vuote, che solo un racconto può salvare. Ho bisogno di scriverlo, perché quando sarò vecchio e senza memoria, non voglio che tutto questo svanisca, ma voglio potermi ricordare dei grandiosi momenti passati a viaggiare per il mondo.

Avevamo deciso il percorso soltanto a grandi linee, perché volevamo un viaggio avventuroso e in assoluta libertà. Sapevamo soltanto che dalla Thailandia, avremmo raggiunto e attraversato la Cambogia, per arrivare fino al Vietnam del sud. Un viaggio di 17 giorni tutto on the road e alla ricerca di esperienze e di culture che potessero riempire i nostri blocchi notes, ricaricare le nostre anime e ridarci il carburante  per poi sopportare un altro anno di lavoro, chiusi nei nostri angusti uffici.

Non ci preoccupavamo di come saremmo arrivati in Vietnam, eravamo soltanto consapevoli che potevamo farlo, ed era diventata la nostra sfida al viaggio, ma anche il divertimento di pianificare di volta in volta le mosse ed il percorso come in un gioco di ruolo, cercando di arrivare in tempo in Vietnam per prendere il volo che ci avrebbe riportati a Bangkok, e da lì, nuovamente a casa nostra.

Subito guai alla partenza.  Impreco e scaglio maledizioni perché i nostri voli erano cambiati. La nostra sosta ad Istanbul si era dimezzata, ad un’ora soltanto.  Ero già in aereo, ma ancora fermi all’aeroporto a Pisa in attesa di decollare, quando l’ansia e la preoccupazione si facevano sentire, e non smettevo di pensare che a causa di quel cambio potevo perdere l’intera vacanza, attesa da oltre 6 mesi!

Stavamo già sorvolando il mediterraneo, quando una voce, all’altoparlante dell’aereo, ci fa capire in un perfetto   inglese che qualcuno, appena scesi, ci avrebbe accompagnati al nuovo aereo. E così è stato, ci siamo subito agganciati ad una cortese hostess,  che all’uscita dell’aereo, ci ha subito accompagnati al nuovo volo.

Già preoccupati per i bagagli avevamo già annusato quello che a breve sarebbe diventato per noi l’emblema della vacanza.

Dieci ore di volo si fanno sentire, ma le passo a guardare film e a sentire musica, giocando con il piccolo astuccio che la compagnia aerea ci aveva fatto trovare sui sedili.  Questo  contiene un mini spazzolino da viaggio, un dentifricio monouso, del burro di cacao per le labbra, salviettine al limone,  una mascherina per dormire, dei tappi per le orecchie, e delle cuffiette per ascoltare la musica. Mi piacciono questi gadget che regalano le compagnie aeree, sono una piccola soddisfazione a quei 650€ spesi per il volo, e ogni volta rido di me stesso, per l’effetto che mi fa. Quel contentino che ogni volta, nella mia testa fa aumentare di valore il mio volo.

Ora, chiaramente, non è che tutto debba sempre filare liscio. E in effetti, i nostri zaini erano rimasti ad Istanbul. Non avevamo previsto questo inconveniente, ma col senno di poi credo ci abbiamo fatto un favore. Il nostro viaggio era programmato sull’avventura, e quindi mi ero portato soltanto lo stretto necessario, qualche saponetta, un paio di cambi, e un paio di ciabatte. L’unico grande danno era il bastone della mia fedele Gopro, che forse non avrei rivisto fino alla fine della mia vacanza. Soltanto grazie alla tempestiva e grandiosa intuizione di Filippo, corriamo al desk per la denuncia di smarrimento, e già 5 minuti dopo, si era già radunata una fila interminabile  di persone dietro di noi che dovevano compilare gli stessi moduli. Una fila che stimavamo sarebbe durata diverse ore. E invece noi, eravamo tra i primi a sbrigare le formalità e ad andarcene dall’aeroporto. Avevamo vinto!

Quello che ricordo bene era il caldo torrido appena scesi dall’aereo,  e la confusione, che a Bangkok  raggiunge livelli critici. Forse a causa del jetlag, o per la scomodità di rimanere seduti  10 ore, non ricordo nemmeno se abbiamo preso un taxy, ma in qualche modo siamo arrivati al nostro hotel, il Dinasty grand Hotel, nel quartiere Sukhumvit. Un hotel forse un po’ lontano dalle maggiori attrazioni notturne della città, ma di qualità.

La nostra suite a buon mercato, pagata poco meno di 40$ era in realtà un lussuoso appartamento dotato di tutti i comfort, con un lunghissimo salone con divani e tv, cucina, e una camera da letto più che pulita, con un bagno lussuoso, con degli asciugamani talmente morbidi che avrei voluto rubarli.

Tutta la nostra sofferenza di un viaggio durato una decina di ore scompare alla vista della piscina. Credo di essere subito entrato in acqua, e di essermi perso per almeno 1 ora senza pensare a nulla.

Dovevamo comprare almeno della roba di prima necessità, visto che il minimo indispensabile era rimasto ad almeno 5000km di distanza da noi. Così usciamo per un breve giro della città e per comprare spazzolino e dentifricio.

Tra birre e brindisi, e qualche pensiero su come impostare il giorno successivo, la serata scorre via veloce,  facendoci già sentire eroi per il nostro viaggio senza bagaglio.

All’indomani, finalmente riposati e rigenerati partiamo per Ayutthaya, l’antica capitale della Thailandia del regno del Siam, ad una settantina di km da Bangkok. ll caldo del mattino si faceva già sentire, e noi come al solito ci muovevamo soltanto con il caldo torrido, giusto per faci male. Credo che siamo arrivati all’ora di pranzo, e nonostante fossimo bagnati di sudore dai capelli ai piedi, eravamo carichi di energia.

Stavamo girando a piedi uno dei più spettacolari posti del mondo. Ricordo centinaia di bellissime statue di Buddah, tutte vestite con dei preziosi tessuti color pompelmo, disposte in lunghissime file, e dei templi rotondi, altissimi, con dei tetti appuntiti, che puntavano il cielo, azzurro, con sporadiche nuvole bianchissime. Sembrava di vivere un’altra epoca, un’altra cultura, un altro mondo, pieno di colori, di suoni, e odori che non avevo mai incontrato prima. Ricordo in particolare di un tempio altissimo, che dovrebbe chiamarsi Wat Yai Chaya Mongkol, con l’entrata in alto, e con una scalinata scomodissima per raggiungerlo.

Una vecchia asiatica davanti a me, con due grandi rughe sulla fronte e sugli occhi, si ferma qualche istante per la fatica, e si asciuga il sudore con un fazzoletto, prima di ricominciare a salire. Eravamo decine e decine di visitatori, e una volta giunti in cima c’era un grande ventilatore, che puntava all’entrata dove le persone si fermavano qualche attimo a riprendersi dalla fatica. Il tempio era una stanza rotonda, di 6-7 metri, ricavata in questa struttura di pietra, completamente fradicia per l’umidità che si accumulava con l’afflusso dei visitatori. Al centro c’era un pozzo, e delle  statue di Buddah ai lati. Il percorso era obbligato. Eravamo quasi incastrati tra le persone che entravano ed uscivano, e in quel poco tempo a disposizione, vedevamo la gente che attaccava delle lamine dorate alle statue, ormai completamente ricoperte d’oro. A causa del caldo insopportabile, e dell’umidità paragonabile ad un bagno turco, mi affretto verso l’uscita, e mi accorgo dall’alto del tempio, di tutto il panorama lì intorno. Poche volte in vita mia son rimasto senza parole per lo stupore, e questo posto era uno di quelli. Tutt’intorno vi erano moltissimi altri templi, alcuni più dissestati, delle cinte murarie, e dei verdi prati dove la gente camminava a piedi scalzi.

Non avevamo ben compreso la bellezza di quel posto, ma quando siamo arrivati al Wat Maha che,  ci accorgiamo di quanto la natura sia sorprendente. Una piccola testa di Buddah, grande più o meno 40 cm, stava mangiata  dalle radici di un albero. Una testa di pietra incastonata tra le radici di una pianta. Non una grande scultura di per sé, ma uno spettacolo talmente unico che imponeva un profondo rispetto e lasciava senza fiato, forse più di un grande tempio costruito con migliaia e migliaia di mattoni. Uno scherzo della natura forse, ma una struttura architettonica naturale che farebbe ingelosire anche l’architetto più famoso.

Alla fine del giro, ci ritroviamo al Viharn Phra Mongkhon Bophit, un enorme tempio restaurato poche decine di anni fa, dove c’è una delle statue di Buddah più grandi in Thailandia; si, decisamente imponente. Mi pare proprio che siamo capitati lì davanti per caso, ma dovrei consultare Filippo per qualche certezza in più.

Si ho già capito, scrivo troppo! E siamo solo all’inizio del viaggio. Nei prossimi capitoli cercherò di essere più sintetico!

Vi lascio con una foto che da sola vale un viaggio in Thailandia!

 

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