Kathmandu

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Forse è per il suo nome evocativo, o per la sua distanza, ma ho sempre immaginato la città di Kathmandu un posto leggendario, quasi proibito ed impossibile da raggiungere: una valle costellata di antichissimi templi e tradizioni che si tramandano nel tempo.

Di sicuro mai avrei pensato che un giorno mi sarei ritrovato lì a percorrere le sue vie e ad assaporare una cultura così diversa dalla nostra. C’è un misto di colori, di odori, di gente con le rughe sul viso piene di speranza, di sorrisi dei bambini che giocano con un pezzo di legno, di commercianti che tirano il prezzo nelle loro botteghe artigiane, di persone in pellegrinaggio nei templi che cantano e suonano cantilene mistiche, di animali che sonnecchiano all’ombra, di gente che porta il risciò con preziosa dignità, e mille altre sensazioni che si perdono intorno a noi.

E poi ci siamo noi, persi nel trambusto di questa città senza tempo, che da sola vale il viaggio di una vita. Non so come descrivere bene tutto questo, sono scene ed immagini che riporterò indietro con me, ricordi forti e indelebili che ancora oggi mi caricano di nuova energia.

Vedo molta povertà, ma quello che risalta è la dignità di un popolo sorridente che prova a risollevare le proprie sorti, e che si aiuta a vicenda, in un modo che ormai noi abbiamo vergognosamente perso da decenni a causa del nostro egoismo “globalizzato”.

Passeremo una settimana tra la città e i suoi dintorni, prima di tornare alle nostre noiose e stressate vite di impiegati, ma ora siamo qui.. tutto il resto non conta e non ci interessa.

Siamo fermi in un caffè a Durbar square, nel centro della vecchia città, e osserviamo dall’interno del locale la grigia giornata che minaccia un forte acquazzone. Le bancarelle del mercatino stanno frettolosamente chiudendo, anche a causa del forte vento che si sta alzando. Un simpatico signore, si affaccia alla vetrina, e poi mi avvicina proponendomi un barattolino di balsamo di tigre (che con le tigri vere non ha nulla a che fare), una sorta di Vix Vaporub “sturapolmoni” che quando sono raffreddato non trovo mai. Combiniamo un prezzo senza tante e sofferte contrattazioni, concludendo la contrattazione entrambi soddisfatti.

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Leonardo Gubbioni © all right reserved

Sempre stanchi, ma sempre con la voglia di vedere tutto ci aggiriamo per i mercatini della vecchia città. Tra i gioielli delle bancarelle spicca il turchese: anelli, collane e orecchini riempiono ogni spazio, ammassati a decine e legati da un elastico che li tiene insieme e separati per tipo.

Io come al solito sono interessato ai dipinti, e tasto il terreno per capire quali prezzi aspettarmi. Osservo alcuni mandala, alcuni bellissimi,  e dipinti con un dettaglio davvero maniacale. Alcuni, grandi anche più di un metro sembrano labirinti nel quale è difficile ritrovare il percorso.

I venditori sono molto simpatici, alcuni più anziani, e altri più giovani, tutti vestiti in un modo piuttosto “stravagante” rispetto ai costumi occidentali. Con un tizio che vende thé, ci fermiamo a chiacchiarare. Avrà si e no trentanni. Sguardo furbo e aria di chi è pronto a imbambolare i clienti con le 1000 spezie che si vedono nei grandi sacchi all’ingresso del suo “bazar”. Prendiamo giusto qualcosa da riportare indietro con noi, magari da regalare ad amici e parenti. Ad ogni modo lo stile del tizio ci spinge a fermarci un po’ di più a chiacchierare con lui. È simpatico, e ci fornisce un sacco di informazioni utili per i prossimi giorni. Dai posti meno turistici, alle cose da vedere assolutamente, e poi ci racconta della sua vita, e del suo lavoro come venditore, e ci racconta scherzando che i turisti italiani tipicamente sono i più tirchi.

Più tardi, lungo una via del centro, l’urlo di Filippo: “Quello è uno space invaders!!!!! È un’opera di un famosissimo street writer!!!” E noi con l’aria di chi vorrebbe maldestramente fingere di sapere chi è questo artista, fingiamo una certa aria “colta”.. “Si, hai ragione! Dev’essere certamente un opera di questo Space… come l’hai chiamato!? Invaders, già!” Ma non eravamo troppo convincenti.. Fin lì, l’unico nome di artista di strada che conoscevamo era Banksy. Ad ogni modo dopo esserci un po’ documentati sulla street art vediamo che le opere di Space invaders venivano vendute anche a più di 10.000€. Solo la razionalità evita che la scintilla nei nostri occhi si trasformi in un’organizzazione a delinquere per staccare dal muro quell’opera. “Corri a comprare una scala ed uno scalpello!!”. In realtà non l’avremmo mai fatto, ma l’idea ci faceva ridere come cretini.

Ci eravamo abituati all’India, dove per la prevalenza della gente la mucca è sacra, e quindi non vedevamo una bistecca da qualche settimana. Alla vista del primo ristorante ci accorgiamo di una felicissima bistecca che ci ammiccava dall’insegna pubblicitaria. Non sono un gran mangiatore di carne, (anche perché non amo troppo i nostri allevamenti intensivi occidentali) ma sentivo il bisogno di ingerire proteine, tanto più perché avevo già perso più di 6kg in 10 giorni. Beh, quella bistecca, assieme ad una fredda birra ci ha davvero risollevato il morale.

I mercatini di Kathmandu sono fantastici. C’è dell’artigianato di grandissima qualità. Lungo le via delle città moltissime bancarelle e negozi vendevano praticamente di tutto. Bisognava soltanto stare attenti alla qualità della merce. Anche i prezzi erano per tutti i gusti, si partiva da pochi centesimi fino ad arrivare a centinaia di dollari. Ma col giusto occhio si poteva sicuramente fare qualche affare e tornare a casa con qualche bel souvenir, o almeno qualcosa che una volta a casa continui a ricordarti quel posto.

Braccialetti intarsiati, anelli di turchese, pietre semipreziose, statue di bronzo raffiguranti decine di dei induisti o buddisti invadevano i tavoli delle bancarelle. Noi eravamo lì con la sindrome da acquisto impulsivo, alla ricerca di oggetti e dipinti da comprare.

Filippo dopo ore estenuanti di contrattazione riesce a comprare una statua di bronzo, grande come il suo zaino e pesante come un’incudine. Era la statua di Sheva, raffigurato con sguardo cupo e con in mano il tridente. La stessa statua che aprirà una diatriba in aeroporto con le guardie che la volevano confiscare (o insaccocciarla?) per qualche non ben definito motivo religioso. Il teatrino si conclude con Filippo che passa il controllo con la statua sotto braccio a mo’ di baguette, gridando furioso “My Sheva!! This is my Sheva! I pray my Sheva!” – mimando il gesto di preghiera con le mani giunte e aria di sfida verso le guardie. Credo abbiano avuto paura perché alla fine la statua è tornata in Italia con noi.

 

Altre due tappe per oggi, importantissime. Siamo diretti al Pashupatinath, il tempio induista più grande di tutto il Nepal. Poi saliremo fino al Boudhanath, l’evocativo tempio buddista, in cima al colle che sovrasta la città.

 

Il Pashupatinath ci riporta immediatamente indietro di qualche giorno, quando eravamo ancora in India. Ritroviamo le stesse corone di fiori arancioni sparse dappertutto. Lungo la riva del fiume, più morti attendevano di essere cremati, circondati da pochi gruppetti di parenti stretti.

Dall’altro lato del fiume, turisti e gene comune si fermavano per guardare lo spettacolo insolito. Non facciamo in tempo a renderci conto, che subito avvertiamo il fumo acre, lo distinguiamo subito. Proveniva dalla pira che avevano acceso lungo il fiume. Lì sopra, un corpo avvolto in una tunica bianca e arancione, che era già ormai avvolto dalle fiamme. Il fumo aveva lo stesso identico odore che avevamo incontrato a Varanasi. La carne bruciata emette un odore che una volta sentito non si dimentica facilmente. Ci allontaniamo, anche per rispetto ai parenti che stavano celebrando il loro defunto, e continuiamo verso l’interno del tempio. Le scimmiette, ci scrutavano a lato della strada, alcune giocavano, altre litigavano tra loro, rubandosi qualche pezzo di cibo che avevano preso chissà dove. Centinaia di piccoli stupa, alti al massimo qualche metro, riempivano l’area, immersi nel verde di altissimi ficus. Anche qui incontriamo qualche sadhu, quei tipici “santoni” indiani, vestiti di arancio, e con le barbe lunghissime, e volto cosparso di cenere bianca. Uno in particolare fumava, e dalla sua sigaretta usciva un fumo bianco e denso, poi il tizio rideva, riprendeva fiato, il tempo di qualche secondo, e subito giù con un’altra boccata di fumo. Prolunghiamo il nostro giro nel tempio, perché l’ombra rendeva quasi accettabile quella giornata afosa.

 

 

Il nostro driver ci scorta finalmente lungo la strada verso la collina. Se non ricordo male anche il Boudanath lo chiamavano tempio delle scimmie, come moltissimi altri posti che ho visto in giro per l’Asia.. Sembra che ogni città in Asia abbia il suo tempio delle scimmie.

La lunghissima scalinata non ci scoraggia. Sicuramente non più di quel bambino che era stato appena derubato del suo gelato da una scimmietta, e che si era appollaiata a pochi metri su un ramo gustando la sua dolce “refurtiva”.

Quel tempio è uno dei posti più carichi di energia di tutto il Nepal. Una sorta di misticismo pervadeva tutta l’area circostante, Al centro vedevamo questa grandissima cupola bianca (si, ma anche un po’ ingiallita dal guano dei piccioni) con migliaia di bandierine colorate ad un filo che puntavano ai quattro punti cardinali. In cima alla cupola c’era il grandissimo occhio di Buddah, l’immagine simbolo di Kathmandu, che dall’alto della collina osservava tutta la città in fondo alla valle.

Intorno al tempio file di candele, incensi e piccoli stupa. Due grandi leoni in ferro (era ferro?) aprivano all’ingresso sulla piazzetta. Intorno tutto il tempio c’erano decine e decine di rulli, che la gente in fila indiana, aspettava il suo turno per farli girare.

Poco più in là, un telo a nemmeno un metro da terra risparmiava dal calore decine di persone, ranicchiate in gruppo a pregare, secondo una strana cantilena. Sembrava un misto tra una canzone e qualcosa di parlato, ma con una cadenza ed una ritmica che quasi ipnotizzava.

Giravamo coi peli drizzati dallo stupore e dalla magia che emanava quel luogo sacro. Intorno non c’era il solito caos e inquinamento acustico a cui eravamo ormai abituati. Intorno a noi,  si percepiva solo un piccolo brusio e parole cantilenanti di persone che pregavano.

 

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Quello è in assoluto uno dei posti più importanti che ho visitato in vita mia. L’atmosfera respirata in quel posto era qualcosa che non si descrive a parole e nemmeno con le immagini.  Sensazioni talmente forti che poi non te le scordi più; essere lì tutti insieme e godersi quel preciso momento.

 

Domani saremo  a Bhacktapur, c’è grande festa, e la città sarà piena di turisti e locali. Andiamo a letto distrutti ma soddisfatti di essere in quel posto così remoto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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