India e Nepal – La meraviglia del Taj Mahal (3)

Siamo in treno verso Agra, qualche ora a sud di Nuova Delhi. Siamo reduci di una giornata incredibilmente impegnativa, catapultati in un mondo che non conoscevamo. Mentre il treno si muove lentamente, Filippo sfoglia svogliatamente la Lonely planet, Paolo scatta qualche foto, e Leo prova a dormire. Io guardo il paesaggio fuori, maledicendo la fotocamera del mio cellulare che scatta foto sfocate e indecenti. Penso che dovrei comprare una macchina reflex, ma sono già carico di aggeggi tecnologici, e non amo viaggiare con una costosa macchina fotografica appesa al collo che non saprei usare.

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All’arrivo in stazione, conosciamo Sven, un simpatico ragazzo di carnagione scura, e occhi incredibilmente neri, cosa da noi tanto rara, quanto comune in India. Avrà venticinque anni, e si presenta a noi con un fantastico inglese indian style. Chi ha avuto a che fare con persone indiane, non può non notare la loro buffa fonetica, che chiaramente si portano dietro anche quando parlano inglese. Un po’ come facciamo noi, con il nostro inglese maccheronico. Lavora per un tour operator locale, ed è lui a proporci un tour della zona. Non avevamo pianificato in dettaglio il giro, quindi accettiamo, ma ci facciamo prima accompagnare al nostro hotel per lasciare le borse.

Puntiamo così all’omonimo forte rosso di Agra, non avendo potuto visitare quello di Nuova Delhi. L’enorme edificio è interamente costruito in arenaria rossa, che ne conferisce proprio il colore rossastro.

Saliamo fin sopra la collina, Camminiamo per la ripida salita, mentre un elefante ci sorpassa sulla strada principale, entrando nel forte con due turisti giapponesi sulla groppa. Vicino a noi, delle capre saltano in mezzo all’erba alta appena fuori dal viale, e dei cani, ci osservano svogliati mentre gli passiamo accanto. In fondo alla valle scorre il fiume Yamuna, un grandissimo corso d’acqua che ben presto, grazie alla complicità della nebbia si nasconde alla nostra vista. Sulle rive, madrie di mucche pascolano indisturbate, e qualche muggito arriva fino a noi. Il forte è circondato da mura altissime che si estendono per tutta la montagna.

Ci troviamo nel cortile, e seppur la giornata sia nebbiosa e stia per piovere, il pavimento rosso sputa ancora calore, accumulato col sole cocente del giorno precedente. Dall’interno del cortile, il forte ci mostra tutta la sua grandezza. Ampi piazzali sono circondati da mura e costruzioni, decorati da numerose finestre e colonnati.

La giornata, nonostante le nuvole minacciose, non ci scoraggia. “Comincia a piovere!” Mi fa notare Filippo. Ma non ci faccio quasi caso, oggi sto meglio, mi sento meno stressato rispetto a ieri, quando eravamo ancora a Delhi.

È ora di pranzo, ed i crampi allo stomaco arrivano puntuali. Prima di proseguire per il Taj Mahal, riusciamo a mangiare qualcosa. I menu sono in lingua indiana, quindi, chiudendo gli occhi punto il dito sul menu, ed ordino la prima cosa che leggo. Casualmente era del riso basmati al cumino, accompagnato da alcune scodelle contenenti strane salse, alcune dagli odori che non avevo mai sentito prima. “Il sapore piccante non è poi così male” – penso, e trangugio tutto velocemente per placare la fame.

 

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Il Taj Mahal è un mausoleo imponente, che non ti immagini finché non ci arrivi davanti e non lo vedi con i tuoi occhi, ti lascia per minuti senza fiato. È certamente il monumento più grande fatto erigere per amore. Fu l’imperatore Shah Janah che lo fece costruire in appena 20 anni, per custodire le spoglie della moglie, che morì durante il parto.

 

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Il palazzo è interamente rivestito di marmo bianco, ed è una combinazione di tre differenti stili, persiano, induista e mussulmano. Non azzardo oltre, perché di storia e architettura non ci ho mai capito molto. C’è una cosa però che salta all’occhio: è la minuziosità con la quale sono stati realizzati gli intarsi. Un lavoro semplicemente maestoso.

Sulla facciata, per tutta la grandezza dei lati, sono incastonati nel marmo dei dettagli in pietra scura, che rappresentano dei versi del corano. Stessa cosa per le due moschee ai lati. I dettagli costruttivi sono di una bellezza unica.

Scatto innumerevoli foto, scartandone parecchie a causa delle nuvole che al momento coprono il sole. Numerosi mosaici compongono tutto il perimetro, fino agli ingressi del palazzo. L’elaborazione delle colonne lascia senza fiato. Non riesco nemmeno ad immaginare quanta gente abbia lavorato per costruire colonne così alte e dettagliate. Tutte le pareti dei muri sono intarsiate e costellate di tessere colorate, opportunamente scolpite per incastrarsi perfettamente tra loro.

“Spostati!” – Grida Filippo ad un cinese che nel frattempo gli aveva tappato la visuale per scattare foto. “Paolo! prendi il bastone della Gopro! Bastonalo!” – mentre ride a squarciagola. I cinesi erano dappertutto, e con quei capelli neri dall’alto sembravano formiche impazzite, pronte a fotografare ogni muro, ogni buco, ogni colonna, ogni sasso, ogni filo d’erba, e ogni microbo che si sia trovato davanti a loro. Tanti, troppi, nonostante la pioggia stesse aumentando.

 

Eravamo già stanchi, completamente fradici nonostante il k-way e gli ombrelli. Ma eravamo davanti ad una struttura talmente imponente che non potevamo già andar via. Non so quando e se tornerò in India, e ne devo approfittare per vedere, toccare, e sentire quello che c’è lì.

Continuiamo il giro, e sulle chiome degli alberi del vialetto, frusciano degli scoiattoli, che a turno vengono a controllarci. Guardano se ci avviciniamo troppo, ma anche se abbiamo del cibo con noi. Riusciamo ad avvicinarne uno, piuttosto piccoletto, ma con una lunga e folta coda. Provo ad offrirgli qualche pezzetto di cracker che avevo in tasca, tanto ormai si erano già sbriciolati tutti. Ci ho messo un po’ e ci è voluta buona pazienza per farlo avvicinare. Volevo fargli prendere il cracker dalle mie mani, ma ho dovuto gettare la spugna, e lanciarlo a poche decine di centimetri, verso di lui. Solo allora si è avvicinato, e ha sgranocchiato un po’, stando sempre ben attento che io non mi avvicinassi troppo. Sul viale all’uscita abbiamo anche giocato con delle scimmiette, che lì vivono indisturbate. La tecnica del cibo funziona sempre.

Fuori siamo nuovamente assaliti dai venditori che ci circondano. Qualcuno ha in mano dei cofanetti in pietra, altri delle statuette in bronzo di alcuni dei induisti. Filippo cambia espressione, occhi rossi e sguardo concentrato, parlava un misto di inglese e italiano velocissimo, gesticolando in modo estremo. Viene letteralmente morso dal tarlo della contrattazione. Dopo 30 minuti di sarebbe riuscito a strappare al tizio una statuetta sottocosto, lui voleva un soprammobile più consistente. E finisce per comprare alcune cartoline dipinte a mano.
Ormai aveva capito i prezzi reali e il modo di contrattare dei commercianti locali. Questi commercianti locali erano spacciati.

È sera, abbiamo fame. Sven ci scorta da un suo amico, il miglior ristorante nella zona. Che fai? non ti fidi?! Andiamo! Quando si tratta di mangiare non ci tiriamo mai indietro. Siamo consci che la cucina indiana possa dare qualche problemino di stomaco, ma fino a lì, era filato tutto liscio.
L’oste propone Cheese Naan, una specie di piadina/focaccia al formaggio. Ne spazzolo almeno tre. L’avessi mai fatto.
L’apocalisse.
Passerò due giorni a letto, moribondo, senza energie, quasi senza riuscire ad alzarmi, né a comunicare. Mi considero un miracolato dal dio Plasil.

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